- - 3 Autori - - Piccioni Ivan F.




la misura circolare di Friedrich Shelling

alle terre rosso sanguigne, al bistro
degli orsi stampigliati
il vano di conchiglia rupestre brucia e rabbrucia
farine molli di ematiti
"Erano per loro cattedrali e manti
modellati sull'ignoto, erano madri
di argille di fuochi
dove illuminare il canto e le frecce invelenite
- lontani dal sacro e dall'indecoroso
già quelli ridussero pianure
in linee orizzontali, poggiandovi gli uomini,
il tuono, i volti del piacere".

ora le vede
fuori il chiaro delle stanze
quelle presenze druide scolorire i rovi
con l'indice e il medio "Inghiottono veloci"
sieri e granuli maturi
"Eppure...
quale anima decise il verbo
se
chi raccoglie una voce, lì trova un corpo,
tocca il duro"
il margine sospinto dai padri,
impercepito.

"Non aveva contratto leggi
chi alzò le unghie per strappare" e le alza
verso acini neri "Non c'era ordine né sapienza
nel gesto che decise" e l'incide, li preme
tra le mole dei palmi
"Quel giorno inventarono le mani".

aprirono varchi sui gusci dei nidi
attraversando l'evidenza e la materia indifesa
che nella mente evoca il dono
"Bastarono profili d'ocra (ignari dell'ombra)
e segni da una coda involta, fecero meraviglie
di bisonti e sentieri e stelle ripide sulle pareti".

dal buio sa piegare altre notti
verso l'origine delle tane, riconosce fondali
e agguati sordi, umanissimi
- è un dio tigrato a sollevarsi
è una rondine suicida, una cometa
livida e sola
"Cos'altro scuote il pensiero
quando il corpo muore, quando ingenera i simili
e i contrari..." cercando l'unico essere,
l'innumerevole.

scrivi, dunque, "Io stesso nutro l'infinito,
ne sono alimento e sembiante: sono l'insetto, la scorza,
la furia..."- chi ti trattiene?





del nostro fogliare

hai di perle liquide le notti
e l'odore denso, rampicante
dei labbri a corona, dei mille musi
affacciati sul precipizio di spine

(interrai giovani le tue radici,
osservando l'eclisse e la sete versavo
acque in cerchi dal mio bicchiere,
per essere comunque attento
al diverso fiorire e a rifiorirti
accanto
nuovamente smosso, cresciuto, avvolto)...

in te ho nutrito decenni di calabroni,
generazioni non mie
di passeri o locuste, di benedizioni o fughe
nella vicina promiscuità solare

(e com'eri azzurra verso l'alba,
come restavi alta
nel medesimo ieri che io
lì stordivo l'amante dolcissima
la reggevo e svanivo
attraverso la mia donna d'impronte
che subito il prato ha racchiuso: le due
sagome peste, rimaste
perdutamente
nell'incavo a scollarsi
i loro corpi d'erba rasa).





infanzia di un'acrobata

il riparo stretto di mezzogiorno
dovevo inventarlo con le mani e i salti
guardando in giù l'arenaria di poco scurita,
era l'abbaglio
un braccio diafano che tutto premeva, i muri,
le strade come bisce senza scampo,
le fontane d'estate roventi di calore.

resistere era appiattirsi
nei lembi delle crepe, in esse salire
cercando l'annuncio sottile di pergole,
una fronda di schegge
(risento la spina curvarsi
gli occhi ruotare nell'ansito
- le nostre corse di calcina a perdifiato
finite le scogliere e l'orizzonte).

la tirannia meridiana esige
una giornata conclusa, un verso
impresso alla sera,
quasi ogni respiro dovesse giustificarsi
o risplendere
sulla pelle fatta di aghi e raccolta
prima del buio, come pettinata...

ora le pareti sono scoscese, gli angoli
della piazza uniti - la mia ombra si stacca
dai fianchi e riveste più di cento visi.





geometrie nomadi

"le palme sono fecce scagliate senza fretta
negli ordini del vento che in loro sosta,
di ognuno sanno il percorso dai cieli
agli oceani vicini di acque o sabbie - esse
rammentano il volo,
tremano ancora".

la stecca d'ebano riscende
unendo angoli distanti, ipotenuse d'erba
sul velluto lucidissimo del vecchio
-il mondo è fermo,
chiaro da far male come la voce
se chiede
"dove s'incontrano due parallele?"

(il ragazzo ricorda la vela nel cerchio
del mare che l'assedia, ricorda
le braccia tese per chiamare
un'invisibile costa - tra i suoi occhi erano le mani
l'ultimo confine) "mai, maestro,
mai si uniscono due linee gemelle".

il vecchio sorride perplesso
e sedendosi stringe un pugno di rena
lasciandola cadere "cosa scende, cosa la spinge...
gli uomini dai pensieri d'uomo
stanno tra grano e grano, quel tanto, nemmeno,
e questa terra sarà più forte.
tu, giovane, scrivi: due parallele
non sanno toccarsi - si toccheranno subito
se il Dio fa un cenno... noi
non potremo impedirlo".

dai monti i cavalli annunciano sangue
e otri nuovi d'asciugare al sole
- i fuochi hanno pronti gli odori, i versi
delle madri fuori le tende.

"presto il mondo sarà curvo, presto cercheremo
l'ago del tempo tra le spira di un cobra"
grida la donna,
lo grida dal crinale
per il fratello ormai adulto, per se stessa
pronuncia
i nomi segreti che le confida, quelle figure
incise nel porfido
dove le mani si confondono
"il buio non mangia la luna, essa l'aggira
- tu trova una duna dritta, trovala - ti sembra
piatto questo sasso e l'iride, la mia,
è sempre un tondo quando si allarga?"
e complicando
"qui hai lo zenit, avvicinati:
sono cateti, sono radici rapide come stelle,
di mese in mese devi moltiplicare
se vuoi ottenere il giorno in cui cadranno..."
lei vede nuvole salire a spirale
segue la macchia del falco, le altre luci
che arricciano le vesti e le movenze molli
dei nomadi al passo.

"nessuna piramide avrà base infinita"
preosegue il vecchio
"nessun numero fuggirà dal suo punto - voi soltanto
siete l'inizio che non termina".

lei sulla scesa
piega la stuoia, lentamente
il collo con il ciclo del sole
- ha creduto, ha cercato dietro mille sfere
la sua goccia interiore, e sognando
nelle migrazioni richieste
negli sfoghi notturni ha giurato
alzando nudo il ventre - adesso
chi sostiene i calici, i suoi sensi
se versa...

"nessun segno risolve il nostro aspetto,
mai troverete sostanza nella figura - guardate,
invece, solo questa pietà
vi salverà gli occhi".





foreste

discuto
tra alberi secolari
con gli amici lontani (con le loro voci)
che veramente qui ascolto, sul principio, o sommo
al primo battito d'ali, a un girare di foglie
se a tratti accade
di tacere insieme o proseguire
la percezione del momento, di cosa io volentieri
accudisco (per loro soltanto)
e vado ragionando e spiego
attraversando terre d'ombra o tagli luminosi, slarghi
di notizie e gesti e molti affanni
riuniti da un tepore improvviso, da un singulto
dovuto a questa concimaia piena di anime
dure a svanire, piena
delle lunghe risposte avute
senza domandare.





il venditori di richiami

ora guardate
quale leggerezza sostiene le nubi
se poi non posseggono pesi apparenti
né corpi, o tutti li assorbono
nell'immenso nulla trapunto di luci.

sulla terra una corsa le dimena
le scroscia da budelli e ferritoie gassose
che annunciano al mondo
il miracolo e le piogge
(la comune semenza, la secrezione grande)
quasi dovessimo raccoglierle
stilla da stilla nelle nostre bocche aperte,
siano esse sorgenti o bicchieri di voci,
per subito cantare l'assurdo e il risveglio
di cento passeri in gola.





la collocazione dei roghi





a Nicola Copernico





"la Scrittura ha fermato il Sole, mai la Terra,
mai questo suolo
che respira immobile il creato
- si arrese la stella nel suo solco d'aria
non l'oceano disteso,
non le montagne".
così giurarono i monaci calendaristi.
al fanciullo insonne venuto da Torun
al magro corridore sul Lungovistola acciottolato
il maestro Abstemius Wodka
indicò sui lastroni la meridiana
aprendo le dita come un compasso - e il ragazzo
voglioso di torri scalmanato
di donne e mescite adriatiche
ne serbò il pegno sull'astrolabio,
quando la fissa Aldebaran s'inghiottì nell'astro
e lontanissimo in merli matematici
al Tevere di quella computò l'eclisse
- l'uomo dopo il ragazzo ricondusse
gli uomini in dimore commensurabili.
al Joshua dei credenti, profeta di un cielo opposto,
sottrasse il centro e il minimo
sussulto - "Nicola fermò il Sole",
così ora è scritto.









diaframmi

la punta
del palo dal celeste si scuote
e invola via una tortora
(da tempo lassù nascosta
nell'identico colore del legno) che ora liberissima
vacilla sul sertame dei fili
e scioglie l'arcano delle ali, distanzia cosa
con estrema grazia decide
chi è sasso e chi piuma
(o questa
idea della costola
prima di ogni respiro).





all'ora

ogni sera di sera rinserro
le ante dure dei legni, chiudo l'aria
la divido
con le reti a ghigliottina - sul fare
di ogni notte creo muri di vetro
sigillo le figlie l'odore i respiri
nella chiocciola del giorno
che ruota, si assesta
in colpi secchi di ferramenta
- ogni sera qualcosa fuori
scivola e fa rugiada
in un sereno fuggire di stelle
(oh, le sento ridere nel contarmi
l'ossa o le sequenze del metallo
in punta alle dita)
- ogni notte di questo tempo
chiedo spiegazioni all'assedio, gli chiedo
notizie sulla guerra a venire, su cosa calpesta
quella riva, quelle sponde
che assorbiranno i sonni del bosco, il mio senno
di pugile
con gli zigomi pesti.